La resilienza tossica: quando alle aziende conviene colpevolizzare i dipendenti.
- Donato Abbondi

- 2 nov
- Tempo di lettura: 1 min

Negli ultimi anni la parola “resilienza” è diventata un mantra aziendale.
Essere resilienti significa adattarsi, resistere, rialzarsi dopo le difficoltà. Fin qui, nulla di male. Ma troppe volte questa parola viene usata come scudo per giustificare condizioni di lavoro insostenibili.
“Se non ce la fai, vuol dire che non sei abbastanza resiliente”. Ed ecco che la responsabilità si sposta: non è più dell’organizzazione che pretende troppo, ma del dipendente che “non regge”.
Questo meccanismo è profondamente tossico, perché trasforma una qualità in un’arma di colpevolizzazione.
Essere resilienti non significa sopportare in silenzio qualsiasi abuso, ma saper affrontare le difficoltà con equilibrio. Le aziende che usano la resilienza come scusa stanno, di fatto, spegnendo la voce critica e costringendo le persone a logorarsi. Il vero cambiamento avviene quando si crea un contesto in cui la resilienza non è necessaria ogni giorno, ma diventa uno strumento straordinario da
usare solo quando serve.



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